A due anni dal terremoto del 6 aprile 2011 l’Aquila è ancora una città dispersa, perché dispersi sono i suoi cittadini e chiuso il suo centro.
La città è un susseguirsi di muri sorretti da travi di legno e pali d’acciaio, muri che spesso nascondono alla vista le macerie e i resti di quella vita che lì, dietro quei muri, è ancora ferma a due anni prima.
Gli aquilani sono nelle famose “casette di Berlusconi” che hanno dato un tetto a tantissime persone e famiglie, ma non un luogo di ritrovo, un bar, un fruttivendolo o un’edicola: dei dormitori per chi può scapparne appena sorge il sole e un luogo di degenza per gli anziani. C’è anche chi, nei container usati per i primi soccorsi e la prima accoglienza organizza quel manca nei paesi, un bar o un negozio di generi di prima necessità.
Gli aquilani sono ancora, alcune migliaia, negli alberghi: anziani e single che cercano di rendere famigliare e accogliente una stanza.
L’Aquila, le sue macerie fotografate dai turisti, sono in una discarica fuori Paganica, una montagna alta decine di metri dove ancora viene depositato “temporaneamente” quanto di ciò che viene rimosso dalle città e dai paesi non appartenga al patrimonio culturale che si sta cercando di mettere in salvo.
L’Aquila è in strada, la notte del 6 aprile, per sentirsi unita e ricordare a se stessa di esistere e di aver sofferto tutti insieme, per sperare nel futuro a discapito di quello che l’Italia e il mondo hanno mostrato loro in 2 anni.